Sui binari

Irene Doda
6 min readMay 24, 2020

Quando sei una ragazza etero che ha superato i venticinque in una relazione stabile di convivenza succede che il mondo inizi a lanciarti dei segnali. Te li lancia su Facebook e Instagram tramite post sponsorizzati di test di gravidanza e pannolini biodegradabili (perché l’algoritmo sa che sono una millennial woke e attenta ai bisogni del pianeta). Te li lancia anche offline tramite i vari sei sicuro che questa casa sia abbastanza grande per voi (*wink wink*) quando decidi di traslocare e lo comunichi alla famiglia, agli amici e ai colleghi.

Le foto di bebé sono ormai una presenza fissa della mia vita su Internet, anche se le mie ricerche social sono per metà recensioni di serie TV e metà le più strane storie di spie del ventesimo secolo. E’ una storia vecchia; quando sei una donna tutto, da quando sei bambina (dai film che guardi, agli esempi che hai intorno a te, ai giocattoli, ai libri di scuola) ti fa capire neanche troppo velatamente che la realizzazione della tua persona si compierà con la costruzione di una famiglia.

Se cerchi “work life balance” su Google immagini

Meno male che la mia generazione è cresciuta con l’ondata del femminismo liberale del lean-in e del work life balance, un’importantissima risorsa sociale a cui le nostre madri non hanno avuto accesso. Qualcuno ci ha finalmente dato una scelta: non devi per forza essere una casalinga che passa l’aspirapolvere compulsivamente sul parquet e cucina manicaretti per un marito mai sazio, puoi anche avere una carriera tua, un ufficio, un tailleur e due o tre donne con la pelle scura che preparino il pranzo ai tuoi figli. Puoi avere tutto, tutto quello che vuoi. Puoi svegliarti alle 5 per rispondere alle email. Puoi passare dieci ore della tua giornata in riunione con una pletora di uomini di mezza età a lottare per farti ascoltare e per non farti interrompere mentre svolgi il tuo lavoro.

Anche se sei quella donna, quella che passa dodici ore in un ufficio ad angolo e che ha come obiettivo scalare la piramide aziendale di sicuro non sei immune al maschilismo e al paternalismo. Moltissime che decidono di perseguire una carriera sono comunque oggetto di prese in giro, battutine e domande invasive sulla loro intimità. La questione che sempre più mi pongo è se i modelli aspirazionali che ci vengono propinati come alternativa al ruolo tradizionale femminile siano davvero tutto quello a cui possiamo aspirare.

L’alternativa tra lavoro produttivo e riproduttivo è una falsa dicotomia; la stragrande maggioranza delle donne svolge, da sempre, entrambi. L’immagine della donna in carriera che si svincola dai pannolini del pupo per diventare Peggy Olson ha un focus esclusivamente bianco, occidentale e borghese. Scrive Laurie Penny nel saggio No, you can’t have it all, pubblicato nella raccolta Bitch Doctrine.

“Somehow, modern women have allowed ourselves to be convinced that the right to work outside ‘the home’ is the only liberation that matters — never mind that working-class women and women of colour have always worked outside the home.[…] Note that nobody is asking whether the nanny can have it all, even if she wants it.”

Anche nel caso una sia abbastanza privilegiata da avere una carriera solida, la possibilità di esternalizzare la cura domestica, e una rete sociale estesa, bisogna sempre considerare la presenza di lavoro emotivo, sensi di colpa, lavoro di cura anche nei contesti produttivi. Non possiamo ridurre la questione della realizzazione personale a una banale binarietà tra lavoro domestico e produttivo, perché la dimensione di cura che ricade sulle nostre spalle è molto più ampia del semplice pulire il pavimento e caricare la lavastoviglie.

Nella narrazione dell’identità femminile si resta troppo spesso imbrigliati in questo binarismo: da una parte il lavoro produttivo, dall’altro quello domestico. Che si parli di libertà, di realizzazione personale o di equilibrio psichico, questa dicotomia rappresenta una falsa alternativa. In prima battuta perché è disegnata sui bisogni e sulle esperienze di una ristretta parte della popolazione mondiale — le donne occidentali bianche di classe media. Inoltre corrisponde a una riproposizione di un ruolo canonico da cui è impossibile svincolarsi: sei la Sheryl Sandberg di turno o sei la Betty Draper della prima stagione di Mad Men. Le nostre scelte di autonarrazione e autorealizzazione sono piuttosto limitate.

Questa immagine aveva come didascalia “quanti denti hanno normalmente le persone”, ma ho pensato che fosse una simpatica metafora e rappresentazione dell’eteronormatività

Torniamo ai miei Facebook ads con vestitini da bebé. Fino all’anno scorso (fino a qualche mese fa in realtà), vivevo in una grande città europea dove avevo una carriera piuttosto avviata — o comunque abbastanza promettente agli occhi dei più. Avevo anche una relazione a distanza che mi costringeva a viaggiare diverse volte al mese, ero costantemente esausta e la mia salute mentale e fisica aveva iniziato a vacillare in maniera preoccupante per via della continua pressione a cui ero sottoposta. Quando mi sono ritrovata a vagare per la città da sola di notte in preda a quella che adesso sono abbastanza sicura fosse una crisi psicotica, ho deciso che forse era il caso di darci un taglio. Sono tornata a casa e sono tornata a vivere col mio compagno, quello con cui Facebook e il mondo pensano che avrò figli. Arrivo al punto.

Non è che io non voglia generare la prole del mio compagno o non voglia una famiglia. Io adoro i bambini — soprattutto quando interagiscono con gli animali e quando sono imbacuccati in cappottini colorati invernali. Ma ho una lunga lista di domande: in primis, se sia etico mettere al mondo una persona quando il suddetto mondo è sull’orlo del collasso sociale e climatico. Non mi pare una cosa da poco. Però a quanto pare questo non conta, per chi mi sta intorno. Hai lasciato la tua sfavillante (?) carriera per stare vicino a qualcuno a cui vuoi bene? Sei pronta a passare dall’altra parte. Da donna in carriera a casalinga disperata. Ora piantala di rompere e facci vedere ‘ste ecografie.

She’s taking some me-time, thanks

Non sto ovviamente rimproverando qualcosa alle singole persone che mi hanno fatto domande su un eventuale desiderio di maternità, sto criticando l’aspettativa sociale che mi sento premere addosso: una scelta di stabilità emotiva (che nel mio caso include una relazione di convivenza, ma può assumere molti significati diversi per persone diverse; vorrei non doverlo specificare ma preferisco farlo) equivale alla scelta di una famiglia eteronormata. Non c’è niente nel mezzo. Siamo riusciti a far diventare binario e noioso anche un concetto complesso e variegato come la libertà di realizzazione personale.

La verità è che al momento io sono lontanissima dall’idea di voler sfornare figli. Mi godo la mia solitudine. Lavoro da casa con mansioni più semplici e con un titolo meno altisonante di quello che avevo prima ma sono infinitamente più contenta — non mi è ancora venuta la febbre per lo stress, tanto per cominiciare. Penso a quali poster appendere nel mio nuovo studio. Vado ai bookclub che mi piacciono con le mie amiche. Leggo saggi filosofici. Imparo a fare gli arancini. Monitoro una famiglia di merli che ha nidificato davanti al mio balcone. Se voglio vedere i miei amici o il mio compagno non devo prenotare un volo con partenza alle 6.20 di mattina. Il punto è uno ed è molto semplice: la libertà di scelta che dobbiamo e possiamo pretendere è più sfaccettata di quella dal solo lavoro domestico — anche se la libertà dal lavoro di cura in casa è una battaglia che resta centrale. E’ la libertà dal binarismo di chi è troppo pigro per immaginare e preferisce appicicarci come mosche sulla marmellata a stereotipi vecchi e molto, molto noiosi.

Post scriptum: lo scorso weekend ho fatto un binge watching fenomenale, della miniserie Little Fires Everywhere. Parla di maternità, degli stereotipi ad essa associati e di come abbia effetti molto differenti a seconda della classe sociale e dell’appartenenza etnica. La trovate su Prime Video.

Post post scriptum: ho scritto un intero blog senza usare la parola capitalismo. Ma credo che sia chiaro. Il capitalismo limita la nostra libertà di scelta come individui. Ora mi sento meglio.

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