Perdere tempo in una provincia nebbiosa

Irene Doda
3 min readSep 30, 2021

1/ Quando ero più giovane di adesso, poco prima o intorno al momento in cui diventavo maggiorenne, desideravo come nient’altro nella vita fuggire dalla provincia. Sono cresciuta nella provincia del Nord Italia, precisamente in Brianza, un luogo che ha due caratteristiche fondamentali: è ricca ed è noiosa.

Da adolescente avevo la sensazione perenne che il tempo mi scivolasse tra le mani: erano gli anni della crisi finanziaria, l’Italia stava sprofondando in un baratro fatto di nipoti di Mubarak, licenziamenti di massa, casse integrazioni infinite. Militavo con poca convinzione nei movimenti studenteschi. Avevo in testa una cosa sola: tra me e quella cittadina limacciosa popolata da fantasmagoriche sciure con la sciarpetta di Burberry presto ci sarebbe stata una quantità di chilometri sufficiente da farmela dimenticare per sempre.

Ma la provincia sembrava perseguitarmi: sono stata in provincia in Erasmus. Lo sono stata quando mi sono iscritta al Master. E alla fine, dieci anni dopo, eccomi di nuovo in una cittadina umida del nord Italia, immersa fino al collo in una nuova crisi sanitaria ed economica. Negli intervalli tra una provincia e l’altra ho vissuto in città, città anche molto grandi. Ma non riesco a togliermi dalla testa che il mio destino, il mio spazio, sia qui. In questi viali a scorrimento e nelle zone artigianali, tra le tavole calde e gli uffici grigi, le trattorie con le sedie di plastica e i giardini con le siepi di rosmarino troppo cresciute.

2/ La prima volta che mi sono messa di fronte a una pagina vuota per scrivere un racconto breve, ero in un ufficio. Ho iniziato con una storia e ho finito per trovarne un’altra. Una storia fortunata, che ha trovato spazio in riviste online e cartacee. Era una storia sulla fine del mondo guardata da una finestra: che era più o meno simile a quello che vedevo io, in quel momento. Un pomeriggio in un ufficio bianco, senza nulla da fare, circondata da persone che come me erano chine davanti a uno schermo.

Dove si trova la libertà? Io l’ho rubata alla noia improduttiva che infesta gli uffici degli impiegati. E dal quel giorno, ho deciso di praticare una creatività clandestina, che non fosse l’occupazione centrale della mia vita, ma un modo sottile di sostenere un’esistenza ordinaria, una lotta quotidiana contro il precariato, le ore vuote, il pendolarismo e le incombenze domestiche. Una creatività libera perché ribelle, e perché radicata nell’ordinario, eretica perché sottratta al ritmo regolare. Una creatività provinciale, che divaga dal centro, per questo vergognosa, oscena, da nascondere e da non rivendicare come missione di vita.

3/ Quando scrivo, o quando mi accingo a scrivere, tutto il mio corpo diventa sensibile, a partire dalle dita: alle cose, alle conversazioni che sento, alle parole svogliate che colpiscono i miei sguardi di internauta. La scrittura mi rende più onesta, mi rende capace di navigare in un tempo accidentato con lo sguardo sufficientemente opaco per capire le sfumature.

4/ Riappropriarsi del tempo significa anche accettare che non tutti i passi della vita sono controllabili. Che si abita in questo posto liminale, fatto di corpo, di passioni, di culo pesante. E chi, come me, è andato avanti pensando di essere un cervello avulso dal terreno, è difficile scoprire di avere un culo.

5/ Lo spazio molliccio, verminoso, del ventre provinciale mi fa sentire il mio peso a terra, mi fa confrontare con il mio corpo, con la mia esistenza in un mondo materiale, fuori da una testa che corre troppo. Ho una mente troppo frenetica — e non sempre nel senso buono — per il rumore di una città. E’ il mio modo maldestro di affrontare dei demoni: il silenzio, il corpo, il tempo che passa senza nulla da fare.

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