Il processo creativo, la malattia mentale, il disastro

Irene Doda
5 min readMay 18, 2023

Dio vede e provvede, dice sempre mia madre, una sorta di traduzione in lessico famigliare di Inshallah. Un’espressione che parla prima di tutto di affidamento a qualcosa di superiore, qualcosa che non sempre si capisce, di cui si riesce a comprendere appieno il potere, la conseguenza. Ho ricominciato a pensare a questo concetto di affidamento, a cui sono sempre stata molto allergica, solo ultimamente, quando, in cura per un disturbo depressivo, ho iniziato a eseguire la pratica della mindfulness, una sorta di meditazione laica che aiuta le persone come me, perennemente afflitte da inquietudine e montagne russe umorali, a non lasciarsi trascinare a fondo dal peso eccessivo dei propri sentimenti o delle proprie immagini mentali.

Si prendono i pensieri, tutti i pensieri, li appende alla finestra come panni ad asciugare, oppure li si lancia nel fiume come legnetti, o li si abbandona sul nastro trasportatore come bagagli. E li si osserva. Loro sono lì e pian piano noi, il centro fermo, ci accorgiamo di essere distinti da tutte quelle cose in movimento. Che appartengono ad altro, a un’altra sfera, e ci sono semplicemente rimasti impigliati in testa.

Continua a non piacermi questa idea dell’affidamento. Ne ho una diffidenza istintiva. A chi mi devo affidare? Cosa sono i miei pensieri, se non me? Sono io a volere decidere cosa conoscere, in che modo farlo. Perché devo lasciarli andare lontano con la corrente? Perché devo staccarmi da questi pezzi preziosi?

Il mio lavoro è un continuo esercizio di controllo sulla realtà: scrivere è dare un nome alle cose, ingabbiarle nelle parole, non lasciarle essere, non lasciarle navigare abbandonate sul nastro trasportatore. Mi rifiuto! La mia realtà me la costruisco così, ad arte. Sense-making lo chiamano in inglese: costruzione di senso. E io in questo senso mi ci trovo a mio agio. Mi creo la realtà che voglio, secondo le mie direttrici, quando metto in fila delle parole. Creo gli scenari, le cornici, il tono delle cose: sento l’eco di quello che vivo in quello che scriverò — o che potrò scrivere, o anche solo che potrò scarabocchiare sul mio taccuino. Non sarò così arrogante da dire che scrivo come pratica di vita — è più un mestiere. Oun modo per rimestare tra le cose mi tengono sveglia di notte.

La dialettica zoppa

Affidarsi? No.

È anche il problema di noi depressi, forse. Il nostro world building ci stringe in una camicia di forza. Diventa una specie di narcisismo da cui non riusciamo a svincolarci. Siamo obbligati a guardare il mondo secondo noi, e solo secondo noi, come dice Brunori Sas.

Poi penso però alle parti della scrittura che mi fanno sentire più libera: quelle che hanno meno a che fare con me, e con le mie interpretazioni, e più con il confronto con altre persone. Ultimamente non riesco a scrivere nulla se non ho prima delle conversazioni lunghe— con qualcuno che ne capisce, che mi spiega, che mi smonta, che mi rimonta. Il più delle volte mi piace che validi le mie teorie, ok. Anche se spesso non scrivo per teorie, ma per ipotesi. E queste ipotesi mi piace vederle confermate e smentite, proiettate da più angolazioni, lì sul foglio. O lasciate nel limbo. Tesi — antitesi — sintesi. Nel mio processo creativo questa triade è zoppa.

Le macerie

Mentre scrivo nella mia piccola città di cui mi vanto sempre con gli amici fuori dall’Italia (perché è tranquilla, perché non succede mai niente, perché chi me lo fa fare di trasferirmi in una metropoli che in Romagna si sta così bene?) è in corso uno dei disastri naturali più gravi, forse, degli ultimi cento anni di storia della regione. In due giorni sono caduti i mm di pioggia di un anno: Forlì è sott’acqua, Cesena è sott’acqua, più di venti fiumi sono straripati, i villaggi in collina sono isolati per via delle frane. Sono morte una decina di persone, e tredicimila sono sfollate dalle loro case.

Mentre dal mio appartamento asciutto al terzo piano mi lagno dell’ansia che mi piglia a dover lavorare mentre fuori dalla mia finestra succede tutto questo, rifà capolino quella parola — affidamento. Perché del cambiamento climatico non ci capisco, oggettivamente, un cazzo. Anche la parte più razionale (e incazzata) di me non sa che politiche servirebbero, come si esce dalla dipendenza dai combustibili fossili, come si ferma la desertificazione senza rinunciare alla nostra bambagia occidentale. So scrivere una cornice di questa complessità, o forse dovremmo dire di questo disastro, ma non posso fare nulla se non osservarla come un pensiero effimero. Per capire devo andare indietro, sempre più indietro: al consumo del suolo, al riscaldamento globale, alle fonti energetiche, alle scelte politiche, la colonizzazione, coloro che stanno pagando di più e da più tempo di noi, i vicini che perdono i figli, le cantine, i cani, le collezioni di dischi…E una consapevolezza mi colpisce con la forza di ossigeno puro nei polmoni: andando avanti dovrò vivere tra cose che non capisco. Che non riesco a nominare, né a stringere nella mia camicia di forza. Le mie pretese di osservatrice svaniscono. Nemmeno il processo creativo sopravvive al disastro.

Cosa resta? Mia madre direbbe la provvidenza. Io preferisco dire quell’ipotesi vaga, quell’autoflagellazione intellettuale che mi tiene sveglia, che mi fa pensare di avere torto, poi ragione, quella dialettica zoppa che è il contrario della depressione narcisista. Abbiamo questa cosa, abbiamo questo pezzo di mondo che va in malora. Guardiamolo insieme. Giriamolo come un cubo di Rubik. E a un certo punto arrendiamoci — e andiamo tutti insieme a spalare la merda. Resta un frullatore di pensieri. Indipendenti, e lasciati andare. Ingestibili, indigeribili. I funghi sugli alberi in città, le colonie di maggiolini, gli aironi sull’autostrada. Il disastro non è nominabile. Stiamo col culo nel fango, e anche solo per oggi, aspettiamo. Affidiamoci al gesto più piccolo che si possa fare, attendiamo le parole che forse non arriveranno mai.

--

--